Mitsuyasu Hatakeda
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Youtube Ricordi visibili e nascosti
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Biography
Mitsuyasu Hatakeda was born in Osaka, Japan, in 1974.
畠田充康
mitsuyasu@moment.jp
Non è facile capire se e quanto l’Occidente abbia influenzato l’arte di Mitsuyasu Hatakeda, giovane, non più giovanissimo (è pur sempre del 1974), pittore, scultore, installatore, performer giapponese, che da sette anni vive a Gussago, alle porte di Brescia. Di sicuro, Mitsu, come lo chiamano gli amici, in Occidente si è fatto apprezzare ormai in diverse piazze, da Milano a Parigi, ora è la volta di Ravenna, al Museo Nazionale, dove ha portato un estratto della sua ultima ricerca: volti, corpi, silhouette in filo di ferro recuperato da cantieri in disuso, cascine cadenti, resti di una costruzione, scarti di una demolizione, di norma “ripescato” nello stesso territorio dove le opere vengono esposte.
Con il filo di ferro, Mitsu colma o meglio delimita un vuoto, lo delinea, spesso sospende nell’aria le sue creazioni, le lascia fluttuare appese a un filo o a un gancio. Sono, appunto, primi piani, sguardi, figure distese in una tensione continua tra la forza contorta del metallo piegato a mano e la leggerezza dell’opera aerea, incolore, sottile. Le figure, poi, da singole e isolate, per certi aspetti bidimensionali, nelle ultime realizzazioni cominciano a essere circondate da altre figure che volteggiano intorno, andando a occupare uno spazio più profondo.
«In Giappone c’è un motto secondo il quale “anche le cose e le parole hanno un’anima”», racconta Mitsu, «e soprattutto nelle cose di vecchia data e usate per lungo tempo si dice che Dio dimori. Io ho voluto dare importanza a questi strumenti che hanno svolto un lavoro, ho voluto che avessero un’altra funzione rispetto a quella che avevano. Come? Ho pensato alla bellezza della linea, anzi a una linea che non volevo disegnare, dovevo trovare, capire, plasmare. Trasformare una matassa di filo di ferro che stava per essere buttata via in qualcosa di bello. Ho pensato: “Che spreco gettare una bella sensazione di ruggine”. Allora ho preso quel filo arrugginito e l’ho fatto rivivere come una figura umana».
Laureato in Belle arti all’Università di Osaka, con una specializzazione in architettura di giardini giapponesi, Mitsu ha lavorato come designer e calligrafo, ma fin da piccolo ha sviluppato un grande amore per la pittura, esplorata in ogni sua tecnica, dall’olio all’acrilico, dai gessetti al carboncino, dagli acquerelli all’incisione. Profondamente legato alla tradizione del suo Paese, a lungo ha indagato e reinterpretato tecnica e temi del sumi, l’inchiostro giapponese, unito all’uso del kinpaku, applicazione di sottilissimi fogli di metallo (oro o argento) su carta di riso washi.
Ma è l’uso del filo di ferro che al momento strega e intriga Mitsu: «A Ravenna ho rielaborato in filo di ferro statue classiche di duemila anni fa, appese lungo il corridoio del chiostro del museo, in confronto/incontro con le stesse statue in pietra esposte accanto. Il filo gira quando il vento soffia e i volti del passato, girando su se stessi, scompaiono e appaiono, scompaiono e appaiono».
Giorgio Caldonazzo
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